sabato 28 aprile 2018

Alfie






Ne ho lette molte su questo bimbo, Alfie, morto stanotte.
E non ho mai detto nulla per non urtare la sensibilità dei miei contatti.
Perché la mia idea è sempre e solo una: o ti leggi Aristotele, Platone, Leibniz, Spinoza, Nietzsche, ecc, comprendendoli, sputando sangue per le loro menti contorte, oppure, per quanto riguarda i concetti di “vita” e “morte”, tu taci. Punto.
Così, dolcemente concettualnazi.
Non per altro, solo perché, per avere un’opinione inattaccabile, devi essere formato.
In questo caso, poi, è difficilissimo avere un’idea che sia scevra di religione, politica, emotività.
La lucidità, in questo caso, non è per tutti.
Perché si rischia di cadere o nel “passionale” o nel “cinico”.
O “Ogni creatura di Dio ha il diritto di vivere!” o “Se la scienza dice che non c’è speranza, non c’è speranza. E la legge è legge!”.
Invece, come al solito, l’equilibrio sta nel mezzo, nel “giusto mezzo” (lo sapreste, se -vedi sopra-).
È vero, un genitore, a meno che non si sia fatto dodici anni di medicina all’università più una vita di studi, non ha le competenze per decidere sulla salute del proprio figlio. Mi dispiace, so che è una realtà difficile da accettare, ma è così. La mamma sa cosa è bene che il bambino indossi, non quali farmaci assuma: non può saperlo perché è ignorante nel senso che ignora (cit).
Ma, d’altra parte, un medico dovrebbe avere il dovere di salvare una vita, non il diritto di imporre una morte (differenza sottile sottile, come le bistecchine di pollo che carbonizzo in padella).
La legge, nel mio paese preferito, quello dove desidero vivere da quando sono alle medie, prevede che, in caso di disaccordo tra le due parti (genitori vs medici) sullo staccare una spina o meno, decidano i giudici.
E questo, al di là della nostra emotività tipicamente italiana, del “buonismo”, del Papa, di Dio, di Adinolfi, della sciura Maria, del fratello Sole e della sorella Luna, è vergognoso.
Imporre la morte, raga, è vergognoso (come, in altri casi, lo è imporre la vita).
Imporre la morte, raga, è omicidio.
Anche tenendo conto del contesto, delle mille variabili, della scienza che non ci dà speranze.
Staccare la spina deve essere un consiglio, non un obbligo.
Se non capiamo questo punto, appellandoci ad argomenti che non c’entrano e che non conosciamo così bene, non capiamo proprio un cazzo.
E, se non capiamo proprio un cazzo, perché commentiamo?

giovedì 26 aprile 2018

Fortuna che ci hanno dato gli ippocastani






: io, prima di iniziare le elementari, andavo ai centri estivi.
Cosa che odiavo con tutta me stessa.
Una me stessa, già all’epoca, davvero molto intollerante al genere umano.
Odiavo i centri estivi perché c’era quella strana mania di cantare in cerchio e fare le cose ossessivamente in gruppo.
Io, invece, volevo solo fare le capriole e guardare le piante (mi piacevano da impazzire quelle piante).
E odiavo i centri estivi perché non riuscivo a interagire con gli altri: facevo domande prive di senso che finivano irrimediabilmente con l’essere prive di risposta.
Ci dovevo andare, in ogni caso.
Perché, se tua mamma deve lavorare e cerca comunque di offrirti un qualche divertimento, non è che puoi dirle “No, raga, a me quel posto fa cagare. Voglio stare a casa a parlare da sola!”. Ci vai e basta, fingendo riconoscenza e buon umore.
Comunque.
Mi ricordo di un giorno in cui c’era una degli animatori che aveva il patema d’animo.
Gli animatori erano un’altra fonte di odio non indifferente perché, oltre a non cagarmi mai quando chiedevo le cose, non riuscivo a capire perché si sentissero così fighi.
Cioè, sul serio ti senti così brillante perché devi badare a dei bambini, reclutato dalle suore?
Boh.
Comunque, ‘sta qua era impanicata perché aveva litigato con uno (o una) e aveva paura a tornare a casa da sola perché quello/a gliele aveva promesse.
Tutto questo lo so perché, anche all’epoca, origliavo (la mia abitudine di origliare ha origini un po’ tristi, che vi risparmio!).
Stavo guardando gli ippocastani seduta sull’erba e vicino a me “i fighi” parlavano di ‘sta cosa.
- Cioè, minchia oh, come faccio a tornare a casa, minchia, cioè (i giovani negli anni ‘90 parlavano così)!
E poi:
- Cioè, chiama la polizia, minchia, dai, non rischiare!
E così per un po’.
Io, che avevo ascoltato abbastanza da aver individuato il falso problema, candidamente dissi:
“Se volete la porto io quando arriva mia mamma!”
Non l’avessi mai fatto, raga.
Quelli mi hanno perculato in un modo così becero che me lo ricordo ancora adesso (tanto da scriverne un post quasi trent’anni dopo).
- Ma cosa vorresti fare tu?
- Ma ti sei vista?
- Ma se sei alta meno di un metro!
- Ma chi ti ha chiesto qualcosa?
E così via.
Ci rimasi così male che, se non fossi stata già così orgogliosa come lo sono ora, sarei scoppiata a piangere.
Non ebbi nemmeno la forza di dire “Razza di idiota, non intendevo farle io da bodyguard. Però mia mamma viene in macchina e possiamo evitarle di fare la strada a piedi da sola”.
Non riuscendo più a parlare, mi spostai a fare le capriole più in là.
Fino a quando arrivò mia mamma e tornai a casa.
Poi ho atteso la fine dei centri estivi, senza mai raccontare questa storia.
Né ai miei, né a nessun altro.
Però questa cosa di interrompere bruscamente le conversazioni e volgere lo sguardo altrove mi è rimasta.
Lo faccio anche nei post di Facebook.
Se io scrivo una cosa, una cagata qualsiasi, e uno commenta facendomi  intuire di non aver capito mezza parola di quello che ho scritto, io non rispondo più.
Perché non sono così ottimista da pensare che se uno travisa completamente alla prima magari centrerà il punto alla seconda.
Perché l’idiozia manifesta mi spaventa.
Come l’animatore che non capiva quel che dicevo e mi perculava per le sue interpretazioni di merda.
Siamo quel che siamo stati, raga.
Fortuna che ci hanno dato gli ippocastani.

giovedì 12 aprile 2018

Cazzo-merda-culo!






: il fastidio che mi provoca la parola “fondelli”.
“Non prendermi per i fondelli!”, Dio!,
che nervi.
Non vuoi dire “culo” perché se no la mamma ti lava la bocca con il sapone?
Ci sta. Anche se voti per il Senato da più di vent’anni, ci sta.
Però, allora, di’ “Non prendermi in giro!”.
Ce l’abbiamo, abbiamo l’alternativa “pulita”.
Che non è “fondelli”.
“Fondelli” fa proprio “Quanto vorrei dire CULO ma sono troppo raffinato, perciò faccio quella via di mezzo un po’ birichina hihihihi”.
Oppure: “Che figura di M (emme)!”
Dio, che fastidio.
O dici “merda”, che è una delle parole più belle e pungenti che abbiamo a disposizione, oppure dici “Che brutta figura!”.
Ma “figura di M” fa subito elementari e bullismo, per quel che mi riguarda.
O usi il volgare o il linguaggio aulico.
La via di mezzo scolastica non con me, grazie.
E non pretenderla da me.
È inutile non dire parolacce ma avere pensieri rozzi, grossolani, sempliciotti.
La raffinatezza deve essere nella sostanza, più che nella forma.
E che cazzo.

lunedì 9 aprile 2018

G non è femen






: “Signorina, vuole sedersi?”

Voglio sedermi?
Me lo chiedi perché sono femmina?
Pensi che abbia muscoli troppo deboli per stare in piedi?
Pensi forse che sia incinta?
Pensi forse che abbia il ciclo?
Pensi forse che il tuo gesto verrà premiato e trasformato in uno scambio di fluidi corporei?
Non mi serve il tuo pietoso aiuto sessista, maleducato!

Scherzo, eh.
Certo che mi siedo, grazie caro.

mercoledì 4 aprile 2018

Occhiali da sòla





: ok, li chiamiamo “occhiali da sole”.
Perché non è che un idioma possa essere proprio perfetto, talvolta “senso”, “riferimento” e “significato” di qualcosa, sono strafatti di crack e si fondono in un orgiastico non-sense.
Oppure, nel momento esatto in cui inventi un oggetto, sei troppo impegnato a non farti fottere l’idea per dare un nome totalmente ficcante: ne basta uno qualsiasi, anche se colmo di pressapochismo.
Tipo “occhiali da sole”, appunto.
Ma ‘sti oggettini sono, come al solito, il risultato di un’evoluzione di un pensiero, non è che uno si è svegliato e ha detto “Eureka, occhiali da sole!”: c’era una certa esigenza ed era quella di ripararsi gli occhi da qualsiasi cosa desse fastidio.
Come la neve, per esempio: la neve era veramente un dito nell’occhio per i poveri Inuit preistorici, perché rifletteva i raggi del sole che poi si scagliavano dritti nei loro occhi.
Perciò si sono costruiti una maschera d’avorio che li bloccasse, che era nient’altro che una maschera “da neve”.
Nell’Impero Romano, invece, si dice che Nerone guardasse i gladiatori attraverso degli smeraldi (oppure, più probabilmente, in preda alla sua piromania, li usasse per proteggersi dalle fiamme!). Quindi i suoi occhiali avrebbero potuto chiamarsi “occhiali da voyeur” o “occhiali da fuoco”.
Nel dodicesimo secolo, poi, in Cina, venivano usati dei vetri di quarzo fumè per riparare gli occhi dalla luce o per nascondere le espressioni dei giudici durante gli interrogatori. Perciò, per dare un nome a quei vetri, potremmo chiamarli “occhiali da luce” o “occhiali da poker”.
Nel Settecento, invece, a Murano (nella mia amata Venezia), sono state prodotte le prime lenti per filtrare i raggi UVA, e quegli occhiali si chiamavano “occhiali da gondola”, “vetri da gondola” o “vetri di dama”.
Poi via via fino a queste schifezze moderne tanto inutili quanto instagrammabili.
Ora, se siete arrivati fino qui, vi chiederete: ma perché questo pesantissimo momento Wikipedia?
Per farvi capire che non siete simpatici quando è nuvolo e dite a qualcuno che ha gli occhiali da sole: “Oh, che sole!”.
Perché esistono anche gli “occhiali da occhiaie”, “occhiali da pianto”, “occhiali anti-rughe”, “occhiali anti-gente”, “occhiali da sonno”, oppure, i miei preferiti, “occhiali da sola” (ma anche e soprattutto sòla!) perché pussa via- non ti voglio parlare- mi infastidisci.

Riassunto: non dovete cagare il cazzo  alla gente con queste frivole minchiate. 
Cagate il cazzo per le falle nei processi cognitivi.
Come faccio io. Cagate il cazzo, ma responsabilmente.