martedì 29 marzo 2022

Mai piò! Non nominare mia madre! Maiii!

 


: posso dire?
Trovo molto preoccupante che non si sappia distinguere tra un pugno, che poi era uno schiaffo, vero e uno finto.
Che non si sappiano leggere le situazioni a tal punto.
Gli influencer, quelli considerati intelligenti, quelli che scrivono libri, eh, non quelli che ti propongono il tè per dimagrire, ieri hanno speso fiumi di parole su questa farsa.
Hanno condannato sia la battuta che lo schiaffo ma lo schiaffo un po’ di più perché, sai, la violenza fisica no! Puoi anche dirmi che ho la mamma puttana ma, grazie al retaggio disgustosamente cattolico e all’allure smaccatamente hippie, io non posso rispondere con lo stesso bieco mezzuccio ma devo per forza porgere l’altra guancia.
Tutti a dire “Non credo fosse un siparietto perché sembrava proprio reale. Si è proprio sentita la botta!”.
Ah, sul serio?
Sul serio, agli OSCAR, qualcuno ha recitato qualcosa in modo credibile?
Ma Cristo, raga, ma ci svegliamo?
Dovrebbe preoccuparci, prima di fare della prosopopea su chi ha provocato o chi è stato provocato, il perché si sia sentito il bisogno di un teatrino del genere.
Perché, per sensibilizzare sul body shaming, si sia sentito il bisogno di inscenare un atto in cui il cavaliere difende l’onore della sua bella macchiato da una battutaccia, dopo averne riso entrambi, e dopo, se vogliamo essere precisissimi, averla fatta passare da cornuta tanto che lei ha dovuto ammettere di averlo fatto cornuto a sua volta per non essere vista solo come una povera cornuta ma una cornuta che sa il fatto suo.
È stato tutto manifestamente finto e, se posso sempre dire, così palesemente finto che avremmo potuto pretendere un pelo di più da uno che si è beccato un Oscar proprio per la miglior recitazione.
E non rendersene conto, prendendo le parti di questo o di quello, guardando romanticamente a un gesto di difesa o condannandolo, è qualcosa che mi mette i brividi.
Se posso sempre dire, eh.

mercoledì 23 marzo 2022

Le mie acque profonde. A Gianni.

 


: qualche mese fa è venuta a mancare una persona a me molto cara che, all’epoca, non ho avuto la forza di celebrare.
Una persona così fondamentale, per la struttura del mio io.
Così profetica, così fiduciosa nelle mie possibilità.
E che io ho deluso più di tutti, più della mia famiglia, più dei miei amici: se ne è andata senza assistere ad alcun mio traguardo.
Ma tanto lo sapeva che sarebbe finita così: mi diceva di leggere questo e quello, di guardare quel film, quell’articolo, e io abbandonavo sempre.
Per noia o debolezza. Noia e debolezza.
Mi interrogava su libri che non avevo nemmeno aperto ma adorava la creatività con cui mi arrampicavo sui vetri, mentendo, rigirando.
Mi avrebbe affidato le sue memorie pur sapendo che non mi ricordo mai neppure cosa mangio a colazione.
Nell’arco di un’ora gli facevo girare i coglioni per cinquantasette minuti, ma lo facevo ridere per tre e gli andava bene così.
Era un brav’uomo.
Un intellettuale di quelli brillanti, pungenti, acutissimi.
Non mi perdonerò mai di averlo abbandonato, diradando via via gli incontri fino a farli scomparire.
Ci sono cose, nella lettura psicologica dei miei comportamenti, che si potrebbero liquidare facilmente con “manifestazioni da testa di cazzo” ma in cui io voglio vedere qualcosa di più profondo, tanto per non sentirmi proprio così banalmente una merda.
E la spiegazione che do a quella sparizione da una persona che reputavo così importante è proprio la consapevolezza di averla delusa in tal modo.
Chissà se è un’ulteriore menzogna a me stessa e al mondo o se è la verità.
Chissà se davvero mi allontano da chi ammiro di più per paura di fottere ogni aspettativa.
So’ gemelli, non lo saprò mai.
La cosa bella delle persone fondamentali per le nostre esistenze, però, è che, quando meno te lo aspetti, quando ne hai necessità, quando ne hai semplicemente voglia o semplicemente ne senti la mancanza, trovano il modo di palesarsi fottendosene della fisica.
Così, ieri sera, quel brav’uomo è venuto a farmi un salutino.
È infatti uscito, dopo vent’anni esatti dall’ultimo, un film del mio regista preferito, Adrian Lyne.
Il suo era Kubrik.
Quante me ne diceva, su Adrian Lyne.
E quante gliele dicevo su Kubrik, solo per farlo arrabbiare.
Uno dei miei ricordi più belli riguarda una nostra discussione, durata il tempo di un intervallo, su Lolita, mio libro preferito e film preferito.
“Quello di Kubrik, spero”.
Ovviamente no, quello di Lyne. E se dice che è meglio quello di Kubrik è perché non ha letto il libro con attenzione o, in preda allo snobismo intellettuale che la contraddistingue, non ha visto quello di Lyne per pregiudizio. Io li ho visti entrambi e le assicuro che non c’è paragone. Per raccontare Lolita ci vuole torbida tenerezza, inquieta profondità e predisposizione alla dolce agonia. Kubrik non ha trasmesso quel disturbo che è fondamentale per entrare nella storia. Si fidi, non c’è partita.
Mi fa sorridere pensare a quando gli davo del lei.
Non mi ricordo cosa mi avesse risposto, sicuramente avrà riso per quell’irriverenza ossessiva che avevo a sedici anni, ma mi ricordo che, dopo l’estate, mi aveva portato tutto goduto un articolo di giornale in cui Lolita di Lyne veniva definito “patinato remake”.
Ero così piccata ma insieme lusingata che avesse ritenuto interessante quella conversazione che gli avevo candidamente detto solo che ci aveva messo tre mesi per ribattere con ‘sta cagata scritta su un tabloid. 
Quanto mi mancano gli scambi di questo tipo.
E quanto avrebbe odiato “Acque profonde”.
Quando ho iniziato a guardarlo non sapevo fosse di Lyne, non l’avevo letto.
Poi, fotogramma dopo fotogramma, mi sono sentita a casa. Il mio gusto appagato al massimo con immagini bellissime, di un nero lucido, “patinato”, appunto.
Il torbido, vecchio Lyne.
Quante gliene avrebbe dette, lui.
Avrebbe battuto sulle incongruenze, sui buchi nella trama.
E io l’avrei obbligato a lasciare da parte il senso per i sensi.
Perché un film non lo puoi solo guardare ma anche toccare. 
Deve farti scorrere più veloce il sangue nelle vene.
Deve pugnalarti e insieme accarezzarti l’anima.
A proposito, mi dispiace se ti ho deluso.
Perché, anche se conoscevi la mia inconcludenza più di chiunque altro, ti ho deluso. 
Sì, perché poi, a un certo punto, ti ho dato del tu.

domenica 6 marzo 2022

Per una guerra


: “Che mondo stiamo lasciando ai nostri figli (e alla regina Elisabetta)?”
Questa è la domanda che sto leggendo/sentendo di più.
Mi piacerebbe tornare a quando non ero nemmeno un concetto per ficcare nel mio genoma la capacità di riflettere solo per occasioni e non su qualsiasi cosa.
Su occasioni a km 0, o massimo 2000.
Per esempio, adesso, per la prima volta nella mia vita, starei cogliendo l’occasione, che questa guerra a due passi da casa mi sta offrendo, per riflettere sull’essere umano e  sul suo ambiente. Sulle sue tendenze naturali e acquisite. Sul suo essere l’unico animale che conosca la malvagità, il potere, ma anche l’emozione profonda, la solidarietà.
Adesso, a trentasei anni, se avessi dei figli, mi starei preoccupando per il loro futuro.
Adesso.
Perché c’è la guerra, adesso.
Non prima, eh.
Non prima, magari, di metterli al mondo.
Adesso.
Perché prima che Putin facesse quello che l’essere umano fa da quando sa di essere umano (consiglio un check qui: https://en.m.wikipedia.org/wiki/List_of_ongoing_armed_conflicts) questo mondo era un bonbon.
Un gioiellino di rara bellezza.
Proprio un posticino adatto a teneri germogli.
Adesso ci preoccupiamo perché, cazzo!, può ancora scoppiarci una guerra dietro al culo.
E non vogliamo che nostro figlio viva in un posto così, brutto perché bellicoso.
Però non ci disturba che possa crescere in un mondo che ti scassa di botte se hai il cazzo e ti piace il cazzo.
Non ci tocca che possa crescere in un mondo in cui una minigonna è una giustificazione allo stupro.
Non ci importa che possa crescere in un mondo in cui la cosa che tira più di un carro di buoi non è più un pelo ma una moneta.
Non ce ne frega che possa crescere in un mondo in cui, fino a due settimane fa, si augurava la morte a chi non volesse o potesse farsi una puntura.
Non ce ne sbatte che possa crescere in un mondo sporco, sia fuori che dentro.
Ci preoccupiamo adesso, per una guerra.
Una, fra le tante.
Perché è quasi qui.
Perché quasi la vediamo.
Quasi, da casa, sul divano.
Tutte le altre guerre che davvero viviamo, non le percepiamo.
Perché abbiamo iniziato adesso, a riflettere.
Per la guerra.
Per una guerra.

(Prima di innervosirmi: non sto sminuendo nulla se non le facoltà cognitive di alcune, ALCUNE, mamme bomber. Che per me sono il peggiore dei mali del mondo.)

mercoledì 2 marzo 2022

Se russi ti odio



: la Bicocca ha ventilato l’ipotesi di cancellare un corso su Dostoevskij per “evitare polemiche, soprattutto interne”.
E questa immensa larghezza di vedute mi fa ben sperare per il futuro, mi dà la forza di proporre ciò che è sempre stato solo un mio timido desiderio.
Il periodo, infatti, mi pare fecondo per suggerire anche l’eliminazione fisica di tutte le persone che russano.
Perché è a partire dai prefissi e poi dalle deviazioni (anche dei setti nasali) che si sviluppa il male.
Grazie, capoccia dell’istruzione italiana.