giovedì 26 aprile 2018

Fortuna che ci hanno dato gli ippocastani






: io, prima di iniziare le elementari, andavo ai centri estivi.
Cosa che odiavo con tutta me stessa.
Una me stessa, già all’epoca, davvero molto intollerante al genere umano.
Odiavo i centri estivi perché c’era quella strana mania di cantare in cerchio e fare le cose ossessivamente in gruppo.
Io, invece, volevo solo fare le capriole e guardare le piante (mi piacevano da impazzire quelle piante).
E odiavo i centri estivi perché non riuscivo a interagire con gli altri: facevo domande prive di senso che finivano irrimediabilmente con l’essere prive di risposta.
Ci dovevo andare, in ogni caso.
Perché, se tua mamma deve lavorare e cerca comunque di offrirti un qualche divertimento, non è che puoi dirle “No, raga, a me quel posto fa cagare. Voglio stare a casa a parlare da sola!”. Ci vai e basta, fingendo riconoscenza e buon umore.
Comunque.
Mi ricordo di un giorno in cui c’era una degli animatori che aveva il patema d’animo.
Gli animatori erano un’altra fonte di odio non indifferente perché, oltre a non cagarmi mai quando chiedevo le cose, non riuscivo a capire perché si sentissero così fighi.
Cioè, sul serio ti senti così brillante perché devi badare a dei bambini, reclutato dalle suore?
Boh.
Comunque, ‘sta qua era impanicata perché aveva litigato con uno (o una) e aveva paura a tornare a casa da sola perché quello/a gliele aveva promesse.
Tutto questo lo so perché, anche all’epoca, origliavo (la mia abitudine di origliare ha origini un po’ tristi, che vi risparmio!).
Stavo guardando gli ippocastani seduta sull’erba e vicino a me “i fighi” parlavano di ‘sta cosa.
- Cioè, minchia oh, come faccio a tornare a casa, minchia, cioè (i giovani negli anni ‘90 parlavano così)!
E poi:
- Cioè, chiama la polizia, minchia, dai, non rischiare!
E così per un po’.
Io, che avevo ascoltato abbastanza da aver individuato il falso problema, candidamente dissi:
“Se volete la porto io quando arriva mia mamma!”
Non l’avessi mai fatto, raga.
Quelli mi hanno perculato in un modo così becero che me lo ricordo ancora adesso (tanto da scriverne un post quasi trent’anni dopo).
- Ma cosa vorresti fare tu?
- Ma ti sei vista?
- Ma se sei alta meno di un metro!
- Ma chi ti ha chiesto qualcosa?
E così via.
Ci rimasi così male che, se non fossi stata già così orgogliosa come lo sono ora, sarei scoppiata a piangere.
Non ebbi nemmeno la forza di dire “Razza di idiota, non intendevo farle io da bodyguard. Però mia mamma viene in macchina e possiamo evitarle di fare la strada a piedi da sola”.
Non riuscendo più a parlare, mi spostai a fare le capriole più in là.
Fino a quando arrivò mia mamma e tornai a casa.
Poi ho atteso la fine dei centri estivi, senza mai raccontare questa storia.
Né ai miei, né a nessun altro.
Però questa cosa di interrompere bruscamente le conversazioni e volgere lo sguardo altrove mi è rimasta.
Lo faccio anche nei post di Facebook.
Se io scrivo una cosa, una cagata qualsiasi, e uno commenta facendomi  intuire di non aver capito mezza parola di quello che ho scritto, io non rispondo più.
Perché non sono così ottimista da pensare che se uno travisa completamente alla prima magari centrerà il punto alla seconda.
Perché l’idiozia manifesta mi spaventa.
Come l’animatore che non capiva quel che dicevo e mi perculava per le sue interpretazioni di merda.
Siamo quel che siamo stati, raga.
Fortuna che ci hanno dato gli ippocastani.

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