venerdì 9 febbraio 2018

Il mio faro si è spento. E il mio mare è in tempesta









: una settimana fa scrivevo questo.
Una settimana fa.

Quando ti dicono che una persona che ami ha un tumore, più di uno, la sensazione è che una mazza da baseball ti colpisca in mezzo al petto.
Per qualche secondo provi un dolore lancinante (e ti chiedi se si possa morire per una brutta notizia), poi inizi a cercare di capire se e come si possa fare qualcosa.
Sì, si può sempre fare qualcosa.
Se non per guarire, almeno per avere ancora un po' di quella cosa di cui apprezziamo il valore solo quando ci manca: il tempo.
Se il tumore è maligno -così maledettamente maligno da correre come un matto seminando figli qua e là- un giorno, un mese o, addirittura, un anno, sono regali per cui essere grati. 
Regali che si trasformeranno in ultimi ricordi, quelli a cui ci aggrapperemo nel momento di disperazione.
Il tumore, come conseguenza delle nostre cattive abitudini, dei nostri vizi, della nostra ignoranza, della nostra noncuranza, come singoli o come specie, è ciò che ci dà l'opportunità di riflettere sulla nostra fallibilità, sulla nostra morbilità, sul nostro egoismo, sul nostro altruismo: davanti a un male così grande e spietato siamo nulla, siamo semplici giunchi piegati al corso degli eventi naturali (Blaise, mi leggi?).
E questo è magnifico e insieme terribile.
È in questa circostanza di malattia senza cura che capiamo quanto siamo in grado di amare, soffrire e straziarci per qualcun altro.
Capiamo, se vogliamo, quanto immenso sia l'animo umano.
Capiamo molto, se ci interessa capire.
Ci viene sbattuto in faccia il valore di ogni respiro, ogni singolo respiro, fino all'ultimo.
L'attesa, l'agonia, di quell'ultimo.
La fine, non per volere degli amanti, di un amore durato una vita.
Il pensare di non poter sopportare un dolore così grande.
... Il tumore ha un potenziale filosofico mica da ridere, insomma.
E lo sfrutterei al meglio, se ne fossi capace.
Ma, no, non ne sono capace.
Mai, e ora più che mai.
Perché ieri, troppo presto, troppo in fretta, è crollata la colonna portante della mia famiglia.
Il mio faro di pochissime parole, ma sempre quelle giuste.
Un nonno che aveva poco di nonno e tanto di padre.
E questo è stato l'ultimo regalo del 2017, uno strascico di quei trecentosessantacinque giorni infernali, una cosa che ho cercato di tenere nascosta a quasi tutte le persone a me vicine, con la stupida illusione che tutto si sistemasse.
Stupida, perché l'"occhio non vede, cuore non duole" non ha mai funzionato con me.
E, infatti, il peggio si è verificato.
Ho sempre avuto la massima attenzione ai sentimenti dei miei nonni, perché a loro devo molto: ho sempre cercato di non ferirli, sapendo quanto fossero estremamente emotivi entrambi.
E ho sempre avuto l'incubo di non riuscire a dar loro un motivo per essere orgogliosi di me, sereni per me: un nipotino, un lavoro fisso, un traguardo qualsiasi.
Bene, con la realizzazione dei sogni sono un disastro, ma con quella degli incubi vado forte.
Sono una trentaduenne disastrata, completamente instabile.
Non ho costruito niente, se non castelli di letame.
Però, stanotte, invece del conforto delle altre persone che stavano vivendo il mio stesso dramma, io ho cercato il mio.
Io volevo parlare con me, sentire cosa io avessi da dirmi.
Volevo scrivere le cagate che scrivo io (e che poi non pubblico da nessuna parte), pensare, fare esplodere le mie sinapsi, disperarmi in solitaria.
E realizzare che sono esattamente chi volevo essere.
Non "cosa" volevo essere, ma "chi".
E di questo, nonno, mio nonno adorato, spero tu possa essere orgoglioso.
Perché, perdonami la superbia, la mia odiosa boria, questo non è da tutti: non tutti trovano in se stessi tutta la forza di cui hanno bisogno, non tutti si prendono la piena responsabilità del proprio dolore, non tutti affrontano di petto la propria sofferenza.
Non tutti, ma io sì.
E di questo, oltre al bene immenso che ti ho voluto e ti voglio, puoi esserne felice.
Spero, spero davvero, che tu ne sia felice.
La tua masnà.

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