martedì 19 novembre 2019

Come una Coca-Cola





: con la grana dell’allergia, quindi con l’abuso di antistaminico, altri farmaci, ecc, unitamente ad altre granelle che completano questa pralina alla merda che è la mia esistenza, è un po’ che non riesco a fare la cosa che, di quelle poche che mi fanno sentire davvero utile, mi rende più orgogliosa: donare il sangue.
Perché, un po’ come il bombo che non potrebbe volare, io non potrei, costituzionalmente, donare. In generale, dico. 
Ma lo faccio lo stesso, perché sono gruppo 0, perché si deve fare, perché lo voglio fare.
Ultimamente, però, a causa dei motivi di cui sopra, vengo sempre rimbalzata.
Oggi, ritento.
Ma sono pronta, sono carica.
Sono tre settimane che non prendo l’antistaminico, a costo di strapparmi via l’epidermide con le unghie.
Ho mangiato carne, ho bevuto un sacco di acqua.
Ho usato sempre...
Vabbè, ho fatto tutte le cose a modino, diciamo, per essere un eccellente donatore.
Perciò, mi sveglio all’alba (per i miei standard) e mi presento alla reception.
N.B. È la mia prima volta all’Avis di Alessandria: ho sempre donato a Valenza, dove vivevo fino a poco fa.
Mi accoglie una signora gentile, che mi consegna il questionario da compilare.
Ah, ma io non vi temo, stupide domande.
Sono perfetta. Perfettissima.
Però, poiché ho questi sensi iper-sviluppati che mi fanno captare l’avvicinarsi della rogna, mi metto in allerta.
“Non so, mi sento che mi rimbalzano di nuovo!”, mi dico. 
“Perché dovrebbero?”, mi rassicuro.
Entro dal medico, che ha il compito di valutare se possa donare o meno, che deve fare tre cose: guardare come ho risposto al questionario, misurare la pressione e misurare l’emoglobina.
Come andrà, oggi?
Come andrà, considerando il mio operato zelante?
Dimmerda, ovviamente.
Infatti, ho pestato due merde su tre.
Perché è vero, io sono stata bravissima, attentissima, precisissima.
Ma mi è sfuggito un particolare: sono anche anemicissima. Patologia che non va d’accordo con l’allergia al nichel.
Ho pestato la merda “emoglobina” (che sono riuscita solo poche volte a schivare, a onor del vero): insufficiente.
E ho, ovviamente, pestato la merda “pressione”: il medico mi ha chiesto come facessi a stare in piedi. 
Con il nervo teso, tesoro: non sono le gambe che mi tengono. È la cazzimma.
Che, però, oggi mi ha abbandonato.
“Non sei tu, sono io!”
“È che ti amo troppo!”
“Sai, devo ritrovare me stesso!”
E altre scuse banali con cui il mio solito piglio si è congedato.
Facendomi rimbalzare per l’ennesima volta: per l’ennesima volta sono stata inutile.
E, così, in un ambulatorio di un ospedale di provincia, io sono crollata.
Sono scoppiata a piangere.
Davanti alla signora della reception, che ha visto la metamorfosi da ghiaccio ad acqua.
Lacrimoni, eh, non occhi lucidi.
Con tanto di labbrino pendulo e nasone colante.
E la signora, dolcissima, lì a consolarmi: “Non fare così, non prenderla così male, donare è nobile ma vieni prima tu...” e una lunga lista di eccetera.
Non gliel’ho spiegato, naturalmente, che ho avuto un’estate difficile, che ha fatto di me una bottiglietta di Coca-Cola nelle mani di un affetto da Parkinson.
E che anche l’autunno non si stia rivelando proprio ‘sta sfilata di Philipp Plein.
Ma...
Fra tre giorni ci riprovo.
Perché io, anche se sballottata e sempre prossima all’eruzione (emotiva o cutanea), sono io.
E i capricci del mio organismo non sono un cazzo.

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